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The corner of the eye 

 

Among the objectives painting has always claimed to fulfill, significant emphasis has been put on leading the eye of the beholder to something which transcends perceptive capacity. Over the centuries, a huge variety of means have been employed to achieve this aim: numinous representations of divinities in the ancient world, Byzantine iconostases, the symbolic forms of sacred iconographies and portraits that reveal a subject's soul. These are only the most obvious forms in an approach that the visual arts have never been able to shake off. Paradoxically, the concrete nature of representation itself has often been an inescapable element in these attempts to depict the transcendental. In more recent times, abstract art initially reaffirmed those very same claims, asserting a spirituality in art which art had, in actual fact, never abandoned, even in its most extreme realism. Every image stands in a position poised between the visible and the invisible, and even more so between the sensitive and the conceptual. Moreover, the greater part of philosophy is founded on this very position, which is, if he truth be told, quite uncertain ground.The invisible, that which escapes our senses (historical limitations aside), turns out to be seen itself. The first task of painting therefore, would be to show it as it is, bringing back to our awareness the essential visibility of the world.

Understood in this way, seeing and the grammar of seeing appear to be central to the issues Lorenza Sannai has been dealing with over many years. If a strong bond can be identified between her poetic language and that which came before it in twentieth century Abstract art, it can perhaps be pinpointed in an awareness of the same task: when putting something forward to be seen, it is seeing itself that is revealed through that something. The place inhabited by the artist's works - this place (1), to refer to the title Sannai has given to her exhibition in the little gallery in via Barcellona - is the place where every image is actually conceived; being made of perceivable material, it therefore accommodates an elsewhere, where it manages to find, at the same time, its deepest rots and its farthermost distance.

After being measured by a scrupulous surveyor, this place breaks loose of its dimensions: the space perused by the observing eye turns out to be distant from what seemed to be the initial perspectival space. Instead, that which takes shape in the painting is structured by a plurality of perspectives, contradicting the very idea of the intuitive immediacy of a designed more geometrico (2).

The articulation of triangles, squares, rectangles and other figures that make up the work - which we have long learned to consider as the product of a project planned in its most minute details - dilates the times required for its fulfillment, leaving ample room for the artist to improvise: each geometric figure is added after the previous one has had the necessary time to dry; it is set next to the adjacent figure putting the overall equilibrium of the composition at risk, thus proceeding in a jeopardized state without being guided by a pre-established plan. These blocks of color, which would be uniform in the historical antecedents evoked - reduced to the neatness of a concept - turn out to be deliberately painted by hand, so that the grooves of the brushstrokes can be clearly seen (and, consequently, the way the light reflects on them). The lines, in this Cartesian space our sight endeavors to gaze into, lose the correlations of a coherent point of view, they seem to propose a vision that is set just slightly aside from the usual, as though it had been caught by chance, out of the corner of the eye.

But, this is the point: while, in a recent note about her work, it was the artist herself who suggested the expression I have borrowed here, I believe that if I stretch its usual meaning just a little it will provide an interpretative key to the apparent simplicity of these paintings. Perhaps we should interpret coda dell'occhio (3) not only as the uncertain limit of our field of vision - somewhere on the edge, far from the focus of sight - but also in the musical sense, an extension, and afterthought, added on to the body of sound. And perhaps it is this persistence, the after-effects of he image when the eye has departed from the field of vision, in which Lorenza Sannai takes her chance to show us once again, and all the more clearly, the bewilderment of seeing; one more time, we are afforded the opportunity to grasp something of the world's invisible visibility.

(1) Translator's Note: the enigmatic title of the exhibition Un Altrove in questo Luogo might be translated as An Elsewhere in this Place

(2) TN: the writer keeps he Latin words here, referring to Spinoza's Ethics, Demonstrated in Geometrical Order (Latin: Ethica more geometrico demonstrata).

(3) TN: The Italian expression la coda dell'occhio corresponds to the English (out of) the corner of the eye, but translated literally means the tail of the eye. The writer interprets this to include the term coda in music, a concluding passage, expanded by many classical and romantic composers into a functional section of the musical discourse, a meaning that here becomes 'lost in translation'.

By Leonardo Casula, May 2017

La coda dell'occhio

Tra le pretese che la pittura da sempre avanza nei confronti del proprio pubblico, ha senz'altro un posto di rilievo quella di portare all'occhio di chi guarda ciò che trascende la nostra capacità percettiva. I modi in cui tale pretesa si è manifestata, nel corso dei secoli, sono stati i più diversi: la raffigurazione del numinoso delle divinità del mondo antico, l'iconostasi bizantina, le forme simboliche dell'iconografia sacra, il ritratto inteso come manifestazione dell'anima nello sguardo del proprio soggetto, sono solo le forme più evidenti assunte da un'attitudine alla quale le arti visive in verità non hanno rinunciato mai. Non di rado, paradossalmente, proprio il carattere concreto della rappresentazione si è mostrato come un elemento imprescindibile nel tentativo di "figurare" il trascendente nel modo più efficace. In tempi a noi più prossimi, l'astrattismo della prima ora ha riconfermato queste stesse pretese, rivendicando uno spirituale nell'arte dal quale, costitutivamente, l'arte non si era allontanata mai, neanche nei momenti del più convinto realismo. Ogni immagine conserva una posizione di bilico tra il visibile e l'invisibile, e prima ancora tra il sensibile e il concettuale: per buona parte della filosofia, per altro, sarebbe proprio questa posizione a definirne lo statuto, in verità non poco incerto. L'invisibile, ciò che sfugge ai nostri sensi, di là dalle determinazioni storiche della sua espressione, si rivela in definitiva essere il vedere stesso. Compito primo della pittura sarebbe allora sostanzialmente proprio quello di mostrarcelo nelle proprie condizioni, riportando alla luce della nostra stessa consapevolezza l'essenziale visibilità del mondo. 

Il vedere inteso in questo senso, e la sua grammatica, sembrano essere al centro dell'interrogazione che Lorenza Sannai propone con il proprio lavoro ormai da molti anni. E se un legame solido si dà, tra la sua poetica e quella di chi l'ha preceduta lungo le strade dell'astrattismo novecentesco, va forse rintracciato proprio in questo consapevole farsi carico dello stesso compito, per il quale nel dare a vedere qualcosa, è il vedere stesso a mostrarsi, attraverso la cosa. Il luogo abitato dalle opere dell'artista - questo luogo, per rimanere al titolo che la Sannai ha voluto dare all'esposizione nella piccola galleria della via Barcellona - è quello nel quale germina in fondo ogni immagine, costituito di materia sensibile e, proprio per questo, capace di un altrove, che qui trova al contempo il proprio radicamento più profondo e la propria distanza più grande.

Passato per le mani di un agrimensore assai scrupoloso, questo luogo sfugge alla sua stessa misura: lo spazio nel quale muove l'occhio che lo esplora si rivela distante da quello, prospettico, dal quale a prima vista sembrerebbe essere accolto, ed è invece una pluralità di prospettive a strutturare ciò che prende forma nel dipinto, contraddicendo l'idea stessa di una immediatezza intuitiva dello spazio disegnato more geometrico

L'articolazione dei triangoli, dei quadrati, dei rettangoli e delle altre figure di cui l'opera si compone, articolazione che ormai una lunga consuetudine ci ha insegnato a considerare come l'esito di un progetto definito nei suoi particolari più minuti - dilata il tempo del proprio compimento, lasciando ampio margine all'improvvisazione da parte della pittrice: ogni figura geometrica si aggiunge col proprio colore alle precedenti solo dopo il tempo necessario all'asciugatura del pigmento; si affianca all'adiacente mettendo a rischio l'equilibrio della composizione nel suo complesso, che procede così, a repentaglio, senza un progetto stabilito a guidarne il disegno. Le campiture, che gli antecedenti storici evocati da queste opere vorrebbero uniformi, ridotte al nitore del concetto, si rivelano fatte a mano per partito preso, perché della mano resti il segno chiaro nella pettinatura del colore (e, di conseguenza nel modo in cui la luce vi si posa). Le linee dello spazio cartesiano dal quale lo sguardo vorrebbe essere accolto, perdono l'adeguatezza di un punto di vista coerente, univoco, e sembrano prospettare una visione appena discosta da quella abituale, che si presenta come fosse stata colta di sfuggita, con la coda dell'occhio

Ma, ecco: se è l'artista stessa, in una recente nota a proposito del proprio lavoro, a suggerire l'espressione che qui le rubo, ho l'impressione, tuttavia, che solo forzando leggermente il suo senso più consueto la si possa infine utilizzare come chiave di lettura possibile per l'apparente semplicità di questi dipinti. E' forse il caso, allora, di intendere la coda dell'occhio non solo il limitare incerto del campo visivo, come luogo a margine, lontano dal fuoco del vedere, ma anche, in senso musicale, come prolungamento, strascico, aggiunta al corpo finito del suono. Ed è forse proprio in questa persistenza dell'immagine, nel suo farsi postuma, nel suo tornare a farsi viva quando l'occhio ha orma lasciato il campo della vista, che si gioca per Lorenza Sannai la possibilità di mostrare ancora una volta, nel modo più chiaro, lo sconcerto del vedere; ed è solo in questa sorta d'eco della vista, nel suo fantasma, che a noi è dato cogliere qualcosa, ancora una volta, dell'invisibile visibilità del mondo.

 

di Leonardo Casula, Maggio 2017

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